Un filosofo che parla di tarantino

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  1. stuntmanlory
     
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    L'ho conosciuto a Verona,quando un giorno decisi di non andare a scuola ma di seguire una lezione di filosofia in facoltà.

    A clockwork bleeding:
    l’orologio a sangue di Tarantino



    di Tommaso Tuppini


    Il primo film di Tarantino, Reservoir Dogs, presentato in Italia una prima volta come Le iene, poi ridistribuito con l’altrettanto discutibile titolo di Cani da rapina, ha, tra le tante, la peculiarità dell’ambientazione claustrofobica e la povertà dell’azione. Ciò fa la differenza di questo film non solo nei confronti di tanti del genere noir-gangsteristico, ma anche verso gli altri film dello stesso regista. O meglio, una delle sue peculiarità consiste nel raffigurare un’azione sempre frustrata, tratteggiata sullo sfondo di una costrizione fondamentale all’inazione. Nelle parole di Tarantino: “Dogs è come un selvaggio action painting, là dove Pulp assomiglia molto di più alla tappezzeria, più a una sorta di 'mettiti comodo e guarda il film svilupparsi' ”1. L’effetto di “tappezzeria” che Pulp Fiction può fare è dovuta all’incastro difficile l’una nell’altra delle tre vicende principali del film e all’incerto e sempre da ricostruire intreccio temporale che i differenti segmenti della sceneggiatura producono fra di loro. Reservoir Dogs presenta, al confronto, uno sviluppo molto più lineare e dove gli scarti temporali risultano immediatamente chiari grazie alla tecnica – non esibita, ma comunque evidente – del flashback. Della tappezzeria Pulp Fiction ha la complessità, Reservoir Dogs ha invece la rapidità dell’arte gestuale. Ma, per via della messa in scena claustrofobica di cui si diceva, è come se dentro la mano che furiosamente si sposta da un capo all’altro della tela per “imbrattarla” dormisse sempre un arto pigro fino alla paralisi, un muscolo atrofizzato e formicolante. Questa particolare conformazione dell’affresco tarantiniano mette insieme l’azione più frenetica con l’otium più inibente. I pochi elementi d’azione del film gangsteristico nel senso classico (rapina, inseguimento, sparatoria, tentativi di fuga…) gravitano come piccoli satelliti intorno al ritrovo dei banditi nel deposito vuoto in cui non c’è niente da fare, se non attendere le indicazioni dall’alto che non arrivano mai su cosa fare (una situazione di difficile rappresentabilità filmica, di cui il più significativo precedente è forse il comportamento del malvivente Dick nel castello isolato dalla marea del polanskiano Cul de sac). La scena fissa del deposito viene senza arresto raggiunta e provvisoriamente abbandonata da tutti i protagonisti, con la sola eccezione di Mr. Orange, il poliziotto infiltrato interpretato da Tim Roth, il quale una volta portatovi morente da Mr. White-Harvey Keitel non è più in grado di allontanarsene a causa delle gravi ferite. Se tutti i personaggi del film sono riguardati da una forma comune d’inazione coatta, quello che la subisce in misura maggiore è senz’altro Mr. Orange, il quale non può più neppure disporre della propria capacità di locomozione. Paradossalmente questa forma d’inerzia è la più adeguata al compito che deve svolgere Mr. Orange, il quale, appunto, in quanto agente sotto copertura, non deve far altro che aspettare l’arrivo dei colleghi, i quali a loro volta attendono l’arrivo del capobanda. Di quest’unica forma d’azione che viene concessa Mr. Orange appare, per forza di cose, l’esecutore più fedele (e Mr. Gold-Michael Madsen come quello più insofferente, al punto di dover imporsi di sfuggire, almeno per pochi istanti, alla coazione all’inerzia per mezzo della tortura gratuita nei confronti del prigioniero). Sembrerebbe per certi versi che Mr. Orange sia la sostanza immobile della motilità del film. Questa funzione cronometrica viene esercitata sanguinando: il corpo dell’agente è un vero e proprio orologio a sangue, sangue la cui pozza allargandosi lentamente sotto il ventre di Mr. Orange segna il trascorrere delle ore.
    Il sangue sembra essere un tessuto umano infraepidermico verso il quale il cinema di Tarantino (ma per tanti versi si potrebbe dire: il cinema in generale) ha manifestato una vera e propria vocazione rappresentativa. I motivi di questa affinità elettiva tra cinema e sangue possono essere molteplici. Anzitutto per la ragione molto semplice e vera per cui al cinema, bigger than life, in linea di principio si dovrebbero vedere le cose differentemente da come sono fuori dal cinema: gli uomini più belli, le donne nude, le catastrofi coreografiche e le interiora del corpo non per forza tenute discretamente nascoste. In secondo luogo il sangue presenta un carattere di disponibilità particolare verso le esigenze rappresentative del cinema il quale, come direbbe Deleuze, è anzitutto una forma dell’immagine-movimento, perché è l’unico tessuto umano che sia visibile e al contempo si muova anche fuori dalla propria sede naturale (in questo caso solo le lacrime possono contendere un primato al sangue riguardo la rappresentabilità cinematografica, le quali però, condizione limitativa, hanno bisogno del primo piano per essere percepite). Nel caso di Reservoir Dogs, in particolare, non si tratta del sangue zampillante come una fontana (come accadrà soprattutto nel primo pannello del dittico di Kill Bill) e neppure del sangue raggrumato sulle labbra e la camicia di Uma Thurman in Pulp Fiction, ma di un’emorragia la cui lentezza è la stessa con la quale si muovono le lancette sul quadrante di un orologio. L’emorragia di Mr. Orange è uno spargersi estremamente “contenuto”: non è un ristagno, ma neppure un’esplosione, essa segna invece quella che è stata definita la “temporalità centripeta” propria a tutto il film: “per l’essere indissolubilmente legata alla tragedia ed alla lenta agonia di uno dei protagonisti […], la temporalità di Reservoir Dogs è una temporalità cupa, malata […]. I personaggi tentano di uscire fuori da quello spazio angusto nel quale sono imprigionati ma, ogni volta che compiono un tentativo in questo senso, accade qualcosa che lo impedisce”2. L’allargarsi lento e quasi controllato della pozzanghera rossa è la cifra dell’intero racconto tarantiniano: tutti i malviventi rimangono assegnati alla figura del morituro per quanti tentativi facciano di sottrarsi ad essa e di mettersi in salvo. Come per lo più il guardare a lungo il quadrante dell’orologio diventa una pausa snervante nell’attesa che la lancetta dei minuti faccia uno spostamento infine percepibile e netto (una soddisfazione che ormai non offrono più che alcuni vecchi orologi appesi nei binari di alcune stazioni italiane di provincia), così il sanguinare di Mr. Orange significa l’ingranare di un marchingegno dalla meccanica misteriosa che per accumulo di tensione fa scattare infine il grilletto dei banditi coinvolti nel duello multiplo e in quello ultimo, altrettanto eterodosso, anche se per altre ragioni, tra Mr. Orange e Mr. White. Questo meccanismo ad orologeria rimane incomprensibile a tutti i protagonisti del film (nessuno raggiunge la certezza di aver scoperto chi sia l’infiltrato nel gruppo). L’emorragia mortale di Mr. Orange sta a significare per ciò stesso la perdita della verità e di ogni plausibile spiegazione di ciò che sta accadendo: “la verità è posseduta proprio dal personaggio morente di Mr. Orange, dal traditore, dal ´proprietario del tempo` che la occulta, la rende inafferrabile; dovrà necessariamente essere surrogata da versioni differenti ed ipotetiche del medesimo avvenimento”3. Temporalità centripeta rimane dunque, assai classicamente, quella del primo film di Tarantino, ma centripeta al modo della intensità kantiana, cioè facente segno verso il niente di una mattanza finale, come lo scorrere del sangue che defluendo non si allontana troppo dall’apertura della ferita.






    1. Q. Tarantino, “It’s cool to be banned”, in P. A. Woods (a cura di), Quentin Tarantino, Plexus, London 2005, 30.
    2. D. Terribili, Quentin Tarantino. Il cinema “degenere” , Bulzoni, Roma 1999, 109.
    3. Ibidem.
     
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  2. NormanBates182
     
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  3. serpeinculo
     
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    fanculo a faccialibro
     
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2 replies since 4/2/2010, 13:21   166 views
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